Antonio Ballista
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Pink Floyd:
"C'é un altro nella mia testa"


















































































































































































































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Intervista a Antonio Ballista da "I Maestri del pianoforte"

di Umberto Vassallo
Edizioni Scientifiche Italiane

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"Il pianoforte? Il pianoforte è uno strumento apparentemente incolore. Può sembrare povero rispetto ad altri strumenti perché privo di effetti speciali: non ha il pizzicato degli archi, il Flatterzunge dei fiati o i suoni bouché dei corni (nel pianoforte l'uso della cordiera e delle parti di legno e di metallo nella Nuova Musica si deve considerare piuttosto un'eccezione che conferma la regola). Il flauto è incantatore, l'oboe è pastorale, la tromba araldiva, il corno cacciatore ecc. Ma tutti questi strumenti sono personaggi a ruolo fisso, maschere che ricordano i tipi della commedia dell'arte. Al contrario il pianoforte possiede l'ineguagliabile possibilità di riuscire a evocare illimitatamente qualunque tipo di suono. (provate nella "Winterreise" a sostituire dei corni autentici, al richiamo pianistico dei corni: l'evocazione nostalgica del bosto ne uscirà incredibilmente slavata). Si può considerare quindi il timbro del pianoforte come una sorta di "meta-timbro", cioé un qualcosa che oltre ad essere fisico è anche concettuale e capace di alludere a qualunque strumento, un infinito potenziale espressivo dell'Idea musicale".
Già, dico io, ma è poi così semplice trasformare uno strumento a corde percosse, di per sé freddo e inespressivo, in un qualcosa di vivo e palpitante? Qual è il segreto per produrre espressione e cantabilità? E' questione di fantasia, di "tocco", di cuore? come è possibile "parlare" a chi ascolta? Ballista ha risposte da fisiologo-psicologo-anatomista.
"La tecnica pianistica, per essere efficiente, deve osservare precise regole di fisiologia nel rispetto di una esatta igiene muscolare. Ad esempio: ad ogni impulso nervoso che contrae un determinato muscolo deve corrisponderne un altro che metta in stato di risposo il suo muscolo antagonista. Tutti coloro che sono in grado di emettere un bel suono osservano, consciamente o inconsciamente, questa regola che si può enunciare più semplicemente in questo modo: nel gioco pianistico bisogna saper isolare i muscoli che servono per la produzione di quel determinato suono, mantenendo contemporanemanete rilassati tutti gli altri. E' una questione di dissociazione".
Lamenta che i libri sul pianoforte generalmente si limitano a parlare soprattutto di interpretazione, trascurando il problema fondamentale della produzione del suono. E fornisce altri dati di grande interesse.
"Il cantabile nel pianoforte si ottiene dallo sfruttamento della massa muscolare del braccio sostenuto dal flessore profondo del dito. Con il diverso dosaggio della flessione del dito e dello sfruttamento del dito il suono può essere graduato infinitamente. Ma naturalmente la qualità del cantabile di un pianista è sempre legata alla sua estetica e quindi può essere raggiunto anche in altri modi. Il cantabile di Rubinstein è molto diverso da quello di Horowitz: osservando quest'ultimo nei filmati, si viene colpiti dal risultato eccezionale del suo cantabile, ma anche sorpresi dall'apparente rigidità del suo gioco pianistico. Sembra insomma che il maestro ucraino suoni il pianoforte come i più accreditati docenti strepitano non si debba suonare. Ma ad una analisi approfondita, si osserva che Horowitz ottiene il suo personalissimo cantabile mettendo a contatto del tasto la parte interna delle falangi anziché la punta del dito utilizzando, invece del flessore profondo, i muscoli lombricali e interossei, che per entrare in azione presuppongono il dito parzialmente rigido. Questa tecnica sofisticatissima consente ad Horowitz di ottenere un cantabile particolarmente luminoso ed anche di sciorinare passi di grande vaporosità ed estrema velocità. Devo questa illuminazione alla straordinaria sottigliezza di osservazione del pianista Tiziano Poli, autore di un recente, insostituibile libro sulla tecnica pianista di cui raccomando a tutti la lettura".
Giocoforza parlare dei pedali il cui uso corretto - secondo lui - richiede un'arte straordinaria.
"L'uso di quello sinistro, per suonare più piano è un uso improrpio. Certo, il suono diminuisce ma la vera funzione di questo pedale (detto "una corda") è di cambiare il timbro. Il pedale destro lo si può usare graduandolo infinitamente. Non solo abbassandolo a metà ma anche a un quarto, ad un quinto della corsa e via dicendo. Non sempre è necessario abbassarlo fino in fondo". Comprendo che quello dei pedali è uno studio nello studio.
"Nelle sonate di Scarlatti - dice - Horowitz suonando in registri diversi riusciva a far sentire, grazie ad un uso trascendentale dei pedali, diversi timbri sovrappossti che oltretutto si potevano distinguere singolarmente come nella pittura le velature dei colori".
Parlando di tecnica, Ballista sostiene che essa deve essere sempre al servizio dell'espressione musicale; una tecnica astratta e non rivolta alla produzione di un suono intenzionalmente individuato è inutile e dannosa perché condiziona ad un unico modo di suonare. Ed è convinto che l'intera metodologia sia da farsi solo con quegli studi che abbiano un contenuto musicale.
"Chopin - dice - impediva ai suoi allievi di studiare ogni giorno e per troppo tempo lo stesso pezzo. Ed è giusto: se fissata in ogni minimo dettaglio l'esecuzione di un pezzo rischia di inaridirsi. Analogamente Furtwaengler diceva che le prove d'orchestra servono unicamente a fissare i limiti dell'improvvisazione. Uno volta presa conoscenza del pezzo nel suo insieme e dominati i passi tecnicamente difficili, il senso musicale verrà fuori solo nell'esecuzione. Il carattere e la sonorità della prima nota condizioneranno tutto ciò che segue".
Il pianoforte che Ballista preferisce è il Boesendorfer. Questo strumento lo ritiene straordinario anche per una particolare caratteristica. E' lo strumento più vicino ai timbri d'orchestra. Con esso si può addirittura imitare l'emissione del suono degli archi effettuando un abbassamento lentissimo del tasto.
Antonio Ballista, innamorato pazzo del Lied, esperto camerista, direttore d'orchestra, pianista ma soprattutto musicista in senso lato.
Lo incontro a Roma ed è una festa. Con lui non si può divagare. Comincia a parlare di musica a ruota libera e non c'è verso di interromperlo. Gli puoi proporre altri argomenti ma lui, come l'ago della bussola, finisce sempre con l'indicare il polo in cui vive. Mi chiedo cosa avrebbe potuto fare se non fosse stato baciato da Euterpe.
"Nella mia infanzia le prime musiche che ho ascoltato sono state romanze d'opera accompagnate al pianoforte da mio nonno che era maestro di canto tra i più noti della sua epoca. Era amico di Puccini che gli affidava la preparazione dei cantanti per le sue opere nuove ed anche di Giordano, Mascagni, Strauss e Leoncavallo. Mio nonno ha lavorato anche diversi anni alla Scala, invitato da Toscanini, per la preparazione delle produzioni e come collaboratore pianistico. I miei ascolti infantili del repertorio vocale con l'accompagnamento del pianoforte erano destinati a condizionare il mio gusto musicale per tutti gli anni a venire. Purtroppo la letteratura liederistica è quella più disattesa nei nostri circuiti musicali ma lo era anche nel passato. Da qualche parte Ravel ha scritto: "Quando i Lieder di Hugo Wolf entreranno a far parte della normale vita concertistica si potrà parlare di civiltà musicale". Posto che Hugo Wolf è uno dei più grandi compositori di tutti i tempi e che l'esecuzione delle sue opere in concerto è ancora rarissima, se si dovesse usare solo la logica per valutare la situazione musicale del tempo di Wolf e di oggi si dovrebbe concludere che musicalmente allora come adesso viviamo nelle barbarie".
Tra i suoi maestri ricorda con particolare stima ed affetto Antonio Beltrami, "un musicista completo ed un uomo di grande civiltà". Dice. "Fu lui a mettermi in duo con Bruno Canino nel corso di musica da camera da noi frequentato al Conservatorio di Milano, decidendo così una ragguardevole parte del nostro destino. Con l'eccezione di Beltrami, nella mia educazione scolastica in generale sono stato istruito prevalentemente su cose che non mi interessavano. Ciò però è stato per me di inestimabile utilità perché mi ha portato a capire quello che desideravo veramente conoscere. Mi definirei quindi un autodidatta da studente ma un serio allievo da professionista, con l'inestimabile chance di poter essere io stesso ad individuare di volta in volta i maestri a me più utili. Ho imparato molto anche dai miei partners e dai compositori che ho frequentato. Nell'insegnare ad altri ho imparato che più che istruire e correggere è importante appassionare e soprattutto far imparare ad imparare. Con lo scopo che talento e preparazione arrivino ad integrarsi tanto da confondersi l'uno nell'altra".
Negli anni '50 e '60 del secolo scorso Milano fu davvero la capitale italiana della cultura: teatro, mostre, concerti, novità e avanguardia. Anche il conservatorio musicale era in sintonia con Eldorado artistico che procedeva di pari passo con il grande sviluppo commerciale e industriale. Naturale quindi che alcuni giovani fossero interessati alle nuove correnti intellettuali nate nell'immediato dopoguerra in Italia ed Oltralpe.
"Io e Bruno Carnino - dice il maestro - prendevamo a prestito dalla biblioteca del conservatorio le partiture delle opere che ascoltavamo alla radio, a rotazione nelle nostre case. Ma accanto a Verdi, Puccini e Wagner leggevamo avidamente tutto quello che si trovava della letteratura moderna: Petrassi, Casella, Malipiero, Dallapiccola, Ghedini ed anche le primizie di Stockhausen, Berio, Ligeti, Boulez, Cage. Allora era comunque non facile reperire quelle musiche.
In quei nostri anni giovanili in Italia l'unico duo pianistico di fama internazionale era il Duo Gorini-Lorenzi, un duo di grande talento ma nato in un momento di relativo isolamento culturale del nostro paese. Bruno ed io abbiamo avuto la fortuna di cominciare la nostra attività in un momento di gran fervore di rinnovamento internazionale che offriva notevoli possibilità di lavoro anche oltre frontiera. Il nostro entusiasmo per le nuove tendenze e la nostra assoluta disponibilità di studio fecero sì che ci inserissimo ben presto nel giro di esecutori della cosiddetta "nuova musica" che a partire dagli anni '50 si era diffusa dalla cittadella di Darmstadt in tutte le direzioni. La mole di nuove esecuzioni era allora impressionante. Ricordo che negli anni sessanta, durante quella straordinaria vetrina di novità contemporanee che erano le non mai abbastanza lodate "Settimane della Nuova Musica" di Palermo, la nostra presenza era richiesta in quasi tutte le prestazioni strumentali e luoghi di prova e, pur lavorando quasi senza interruzione tutto il santo giorno, riuscivamo lo stesso a scontentare tutti i direttori che non ci perdonavano di non possedere il dono dell'ubiquità".
Quali rischi comportava allora eseguire musica d'avanguardia?
"Innanzitutto quello di trovarsi addosso etichette preclusive nei riguardi di musiche di altro genere. Poi l'eventualità abbastanza frequente di doversi sottoporre a supersforzi per studiare pezzi ricevuti magari pochi giorni prima del concerto. Infine il rapporto col pubblico. Negli anni eroici della diffusione della nuova musica, le reazioni del pubblico talora arrivavano a rendere problematica la stessa possibilità di farsi ascoltare (una volta a Bordeaux me la sono vista brutta prima dell'intervento della...polizia).
"In pochi anni arrivammo a disporre di un cospicuo repertorio di composizioni appositamente scritte per noi. E anche nei nostri programmi più tradizionali ci facevamo un punto d'onore di inserire sempre accanto ai classici, composizioni nuove. Negli anni '60 arrivammo ad eseguire presso la società per antonomasia più tradizionalista di Milano, la Società del Quartetto, gli scandalosissimi "Tableaux vivants" di Sylvano Bussotti. E durante la nostra esecuzione Cathy Berberian ebbe l'idea di attraversare il palcoscenico avvolta in pesanti catene".
"Secondo me - prosegue Ballista - Darmstadt è stato un fenomeno interessantissimo per la sua utopia di rinnovamento totale del linguaggio musicale, ma la sua reale importanza fu di brevissima durata anzi divenne abbastanza presto una sorta di accademia, contraddicendo tutte le sue premesse o anche peggio: una sorta di brevetto impositivo, che escludeva diritto di cittadinanza a tutti i musicisti che avevano orientamenti differenti".
Il Maestro in questo era più che vaccinato. Pur essendo considerato uno specialista dell'avanguardia, il nuovo lo trovava anche altrove non smettendo mai di perlustrare i repertori più inconsueti. Già da allora aveva intrapreso una sorta di «vita parallela tra la musica classica e quella di consumo». Non era contaminazione ma l'abbattimento delle frontiere dei generi in vista di presentare la musica più interessante di ogni tendenza.
Curiosando nella sua discografia, accanto al repertorio classico scopriamo qualcosa di singolare: un titolo indicativo ma al tempo stesso fuorviante, «Made in Italy». Si tratta di una raccolta di cinquanta anni di canzoni italiane da Bixio a Danzi a Mascheroni ed altri nelle versioni classiche di Alessandro Lucchetti. L'orchestra è quella dei «Pomeriggi Musicali» e il direttore è Antonio Ballista.
Ma c'è di più. Gli lascio la parola.
"A Parigi dove ero andato a studiare con Boulez per mettere a punto una tournée di musiche sue, scoprii in un negozio di musica un album di ragtimes di Scott Joplin (allora in Italia non si conosceva neanche l'esistenza di questo autore). Rimasi affascinato dalla zampillante freschezza inventiva di questi brani. Da allora suono regolarmente ragtimes di questo autore nei miei concerti.
Allora continuo a non capire come si possa a priori discriminare un genere dal punto di vista estetico. Ci sono sinfonie noiosissime - dice - e canzoni strepitose. I capolavori stanno da entrambe le parti".
Porta ad esempio Gershwin.
"Fino a una quarantina di anni fa era considerato semplicemente un buon compositore ritmo sinfonico. Ma oggi chi può dubitare del suo genio? E Puccini? Nella prima parte del secolo scorso musicisti anche illustri lo consideravano un compositore di musica piccolo borghese buono a far piangere le portinaie. Oggi, nel genere della musica di consumo solo i Beatles godono di reputazione indiscussa presso la maggior parte dei musicisti classici".
Tra i vari vagabondaggi del maestro alcune riletture di opere di Verdi, Rossini e Puccini ancora nelle orchestrazioni per piccolo gruppo di Alessandro Lucchetti. Sono parafrasi alla maniera di Liszt in cui le parti dei cantanti sono eseguite dagli strumenti. Come in Liszt una visione prospettica diversa della drammaturgia di queste opere.
Già si è detto: distogliere Ballista dal suo mondo di suoni non è cosa facile. Ha sempre nuovi argomenti, un'infinità di esperienze da raccontare, una quantità di intuizioni da ipotizzare, un vero vulcano in eruzione.
Provo ad introdurmi di forza in un minuscolo varco di tempo che mi concede ed è una nuova scoperta: adora la pittura forse ancor più della musica. Tra un concerto e una mostra non ha dubbi: preferisce quest'ultima. È ancora rammaricato per aver perso la grande mostra belga di Leon Spilliaert, uno dei suoi pittori preferiti. È orgoglioso di possedere un catalogo completo (di 2400 opere) del suo amatissimo Vallotton e ritiene di aver trascorso uno dei più bei pomeriggi della sua vita quando con sua moglie si è recato al museo dell'Aja per vedere in esposizione tutte le opere di Vermeer.
La pittura per lui non è solo contemplazione. Si diletta a fare incisioni e a confrontarle con un famoso amico pittore. Questi, a sua insaputa, ha portato alcune sue opere in un negozio di Vienna dove il direttore (o la direttrice: non lo sa) del Museo Albertina le ha viste e comprate.
Lui dissimula ma si vede che ne è fiero.
"Così - commenta - ho dieci incisioni all'Albertina di Vienna. Mi sembra una follia..."
Altro piccolo varco in cui mi infilo. Ormai sono diventato un esperto. Cosa può fare un artista come lui quando le muse, in un momento di distrazione, allentano l'abbraccio?
"Non ho hobby particolari e non sono attratto in particolare da nessun tipo di gioco. Mi piace andare a zonzo liberamente, senza pensare ma guardando attentamente tutto quello che capita intorno. Sento però foltissima l'attrazione per la montagna, forse perché per me rappresenta il simbolo stesso di ciò che più mi affascina nel reale, infatti la dimensione della montagna è talmente altra rispetto a quella degli oggetti che abitualmente ci circondano che più ti inoltri in essa e più la sua forma complessiva ti sfugge. Sulle montagne sparisce la differenza tra il grande e il piccolo: lassù tutto è ugualmente importante e ciò mi introduce in una dimensione di grande serenità".
Si ritorna alla musica. Già abbiamo divagato tanto. Con lui è inevitabile: si va sempre verso quel fascio di luce, quel faro potentissimo, un sole direi, che riscalda e trasfigura la sua esistenza. Ad un certo punto sembra inevitabile che salti fuori quello che mi sembra il fiore all'occhiello della sua attività: l'ensemble «Novecento e oltre».
"Ho formato questo gruppo nel 1955, nell'occasione di un'integrale weberniana promossa a Palermo. Il mio gruppo ha l'orgoglio e l'umiltà di diffondere quel meraviglioso patrimonio per ensemble che ci ha lasciato la prima metà del secolo scorso, patrimonio che non deve essere considerato solo un formidabile repertorio di musiche, ma anche un caleidoscopico ventaglio di visioni del mondo: ritengo quel periodo unico nella storia della musica per la sua creatività».
A questo punto vorrei terminare questa conversazione con un musicista così ricco di esperienze diverse, chiedendogli di raccontarmi le impressioni musicali più indimenticabili della sua vita. Eccone una: l'esecuzione di Pélleas et Melisande diretta da De Sabata alla Scala. Per lui studente fu una scoperta sensazionale e non si volle privare nemmeno di una replica: sette sere! Ne fu folgorato e Debussy rimase da allora il suo musicista preferito e considerato — sono parole sue — il più proteso in assoluto verso l'avvenire. Un'altra impressione indimenticabile fu per lui l'Ernani di Verdi diretta da Mitropulos.
"Mitropulos dava l'illusione che ogni nota di quello che interpretava fosse sorprendentemente nuova, come appena scritta. Mi sono scervellato per capire il miracolo di questo risultato e sono arrivato alla conclusione che tale prodigio dipendeva forse non solo dalla sua genialità di interprete ma anche da un'attitudine etica. Si sa che da giovane aveva interrotto la sua attività musicale per ritirarsi sul monte Athos. Ma dopo qualche mese si rese conto che la sua vera vocazione non era quella del monaco ma di servire Dio attraverso la musica. Mitropulos era il musicista meno narcisista che sia mai esistito".

Umberto Vassallo
da "I Maestri del pianoforte" Edizioni Scientifiche Italiane